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Vicoforte
Vicoforte: quadro generale e cenni storici
Vicoforte è un antico e bellissimo paese collinare di circa 3200 abitanti in Provincia di Cuneo, situato 598 metri s.l.m. a 7 Km da Mondovì.
Siti ameni, testimonianze storico artistiche, ottima recettività turistico –alberghiera vi accoglieranno, se vorrete visitarlo. Sicuramente non vi pentirete.
Ampi orizzonti collinari raccordano l'arco possente delle Alpi alla spazialità della pianura monregalese. Sui colli, teatro di storiche battaglie napoleoniche, a ridosso di Mondovì Piazza ed a essa protesa in secolare accordo, Vico sfila le sue borgate: Costa, Poggio, Gariboggio, Borgo, Fiammenga.
Le nuove costruzioni fraternizzano con le antiche e l'abbraccio si chiude nella valle dove la grande architettura del Santuario riempie la conca della propria imponenza e sigla, nella volumetria e nell'ampia cupola, l'intelligenza degli artefici e la secolare devozione che la volle.
Nel tempio, al centro dell'unica navata maestosa nel baldacchino marmoreo del Gallo, la Madonna di Vico conserva, sotto tanta ricchezza d'arte, la pietà umile e severa che la fissò nell'antico pilone.
Secondo la leggenda, un fornaciaio, la cui fornace dava prodotti scadenti, eresse l'edicola per voto e, in virtù della prece a Maria, la qualità dei mattoni migliorò.
Gli anni seppellirono il pilone nella quiete dimenticata del bosco, fino a quando, nel 1592, un cacciatore, colpendo per errore l'affresco, lo restituì alla devozione popolare.
E venne la peste. La gente di Vico chiese alla Vergine del Pilone la grazia di aver salvo il villaggio e, in segno di gratitudine, costruì una cappella. Così nacque il Santuario. Folle di pellegrini vi accorrevano e fra questi, il Duca stesso: Carlo Emanuele I che volle erigere una basilica meravigliosa.
La costruzione della basilica, iniziata nel 1596 quando venne posata la prima pietra benedetta, ebbe vicende travagliate. Sull'impianto rinascimentale intervenne, nel secolo successivo, Francesco Gallo, che, fra il 1729 e il 1733, completò l'opera, innestandovi la struttura barocca del tiburio e la grande cupola ellittica. Il corpo unico della palizzata vittozziana racchiude, in una scenografia solenne, il piazzale, dove recita da sempre, assoluto protagonista, il tempio.
Al centro, la fontana, che le immagini rimandano ammantata di ghiaccio, e la statua di Carlo Emanuele I, il duca sabaudo che s’impegnò per l'edificazione della chiesa e che vi è sepolto con la figlia nelle cappelle laterali.
Il Capoluogo di Vicoforte, in alto, sorveglia, con orgoglio e amore, il suo Santuario, il monastero e le case frazionali che lo circondano.
La strada é un invito a salire. Infiniti scorci suggeriscono quotidianità remote; di tanto in tanto, prorompe il verde scuro degli abeti e l'impianto medievale disegna il Borgo, arroccato nella fiera unità che lo cinge fra le mura dell’oramai distrutto castello.
Archi passanti, pesanti murature con l'ampio basamento denunciano età antiche.
Vico, questo era il nome originario del paese, è sicuramente un luogo molto antico, già abitato al tempo dei romani, come testimoniano alcune iscrizioni lapidarie utilizzate, poi, come materiale da costruzione ed una necropoli rinvenuta al Santuario sulla via che, risalendo il corso del torrente Corsaglia, attraversato Pamparato e Garessio, sfociava al mare.
Il primo documento ufficiale che ne attesta l’esistenza è, tuttavia, del 1041. In esso l’imperatore Enrico III concede al vescovo d’Asti, rinnovando antichi privilegi, il contado di Bredulo, feudo di origine carolingia.
Vico è ben descritto, con la Pieve di San Pietro, il castello, la corte e le cappelle, con la valle Corsaglia, con tutti i mulini e le acque pescose, sino alla sommità dei monti. Il vescovo d’Asti, signore di Vico, vi governa con potere assoluto attraverso le pievi. La plebe o pieve, un’istituzione religiosa alle cui funzioni di culto è interessato tutto il popolo del distretto battesimale, ha pure funzioni giuridiche, civili, economiche e fiscali. E’ probabile che, proprio intorno a queste primitive pievi, si siano create delle fortificazioni di difesa e delle comunità che si sono sovrapposte a quelle rustiche preesistenti.
Così deve essere successo per l’insediamento medioevale di Vico, situato in un luogo naturalmente elevato e ben difendibile, con un castello fortificato, circondato da un piccolo borgo racchiuso nella cerchia di mura.
Il resto del paese è diviso in tre parti chiamate: Terzero di Sette Vie, di S. Pietro e di Terragneto cui è unito l’abitato di Mercato Vecchio detto anche Terziero in qualche vecchia scrittura. Di quest’ultimo non rimangono, nella prima metà dell’Ottocento, che il nome in vecchie carte.
Del Borgo e del suo castello, invece, nella prima metà del milleottocento, sono ancora visibili lunghi tratti di mura, i fossati, con la denominazione specifica, avanzi delle torri da difesa, delle porte e ampi e profondi sotterranei con condotti e gallerie che sbucano in alcune delle case poste alla radice della collina.
Quasi sicuramente, il castello di Vico si componeva di un solo edificio, posto alla sommità della collina; intorno alle case del Borgo due cerchie di mura: un’interna e un’esterna di cui si possono ancora identificare le tracce.
Il Borgo aveva almeno tre accessi: uno verso i terzieri di Mercato Vecchio e Terragneto, oggi diremmo verso Mondovì, un secondo verso Fiamenga e un terzo aperto verso il terziere delle Settevie, oggi Via Galliano.
All’interno delle mura si trovava la chiesa di S. Donato, cappella gentilizia, ma con accesso al paese che, dalla metà del ‘200, diventa Pieve al posto di quella di S. Pietro in Fiamenga. La sua costruzione risale all’XI secolo per merito dei marchesi “Del Vasto” signori del castello di Vico, una potente famiglia con possedimenti in varie parti del Piemonte e della Liguria, fra l’altro fondatrice anche dell’abbazia e della chiesa di S. Donato a Pinerolo, oggi cattedrale.
In tutto il nord dell’Italia, il XII sec. vede un periodo di transizione che porterà gradualmente a una maggiore autonomia politica, al superamento definitivo del sistema curtense feudale, alla nascita di piccole comunità autonome, alla costituzione di liberi ordinamenti comunali.
A Vico, l’autorità del vescovo d’Asti rimane indiscussa, anche se, dalla metà del XII secolo, sempre più si avverte un certo malcontento popolare, nonostante il paese abbia privilegi e autonomie importanti.
Nel 1118, infatti, il vescovo concede ai suoi “homines" porzioni di terre molto estese, in gran parte boschi e selve che coprono tutto il territorio della valle Corsaglia e dei suoi affluenti fino a Torre. Nei documenti, ancora in nostro possesso, si legge un’interessante descrizione dei rapporti che intercorrono fra sudditi e feudatario, con reciproche limitazioni, tanto che queste conquiste resteranno nella memoria dei cittadini vicesi anche quando emigreranno e fonderanno la città di Mondovì, così da farne la base dei futuri patti.
Il 27 ottobre del 1198 il comune sul Monte di Vico (questo vuol dire il nome Mondovì) costituisce ormai una realtà nonostante numerosi eserciti di signori minaccino fortemente l’autonomia conquistata. Il paese d’origine, invece, resterà sotto il dominio episcopale per alcuni decenni, per poi divenire parte integrante e quartiere blasonato della città sino al 1699.
Il forte sul Borgo, invece, non sarà assoggettato alla città monregalese che per poco tempo. Rappresentando un baluardo facilmente difendibile, sarà fatto segno di mire da molti principi e vedrà distruzioni e battaglie. Gli Svevi, gli Angiò, gli Acaia, i Visconti ed il marchese di Monferrato si susseguiranno e lotteranno per la sua conquista.
Il castello non avrà mai pace; sarà più volte distrutto da guerre e calamità naturali, come quando un fulmine farà saltare le munizioni contenute in una delle torri uccidendo dodici persone; sempre sarà ricostruito, fino alla completa distruzione nel 1684 durante la “Guerra del sale”.
Alla metà del ‘600 l’imposizione fiscale, sempre più oppressiva, anche a seguito di guerre e paci sfavorevoli al duca di Savoia, diventa insostenibile per la popolazione.
Mondovì e Vico, grazie ad antichi patti firmati al momento del passaggio sotto il dominio sabaudo, sono esenti dalla gabella del sale. Oltre a ciò il comune segna il confine con i territori assoggettati alla Repubblica di Genova: il sale è, quindi, facilmente reperibile e venduto di contrabbando ai paesi vicini.
Il Duca, che lo distribuisce sulle sue terre come monopolio a caro prezzo, pretende che la gabella sia rispettata anche nel monregalese, impedendone il commercio clandestino. Se all’inizio delle rivolte il patriziato di Mondovì è il sobillatore, alla fine la nobiltà, desiderosa di inserirsi nella cerchia della monarchia, abbandona la povera gente e i ribelli al proprio destino. Nel 1698 c’è l’ultima rivolta, in pieno inverno. Una volta vinti e uccisi i caporioni, il Duca decreta la distruzione dei paesi, Vico compreso.
Non contento, esilierà metà della popolazione a Vercelli per dieci anni, in situazioni veramente terribili. Contemporaneamente, al termine del 1699, istituisce la municipalità di Vico come comune indipendente e direttamente infeudato alla corona. Dal 1721 al 1798 Vico avrà un conte, prima della famiglia d’Usseglio e poi di quella d’Ormea.
Nel periodo napoleonico Vico ancora soffre per battaglie e violenze d’ogni genere. Nell’ottocento il paese, a poco a poco, rifiorisce.
Sulle colline argillose nascono gelsi e vigne, si diffondono l’allevamento dei bachi da seta ed il vino diventerà il primo prodotto della terra. Le cave di marmo aprono voragini, la rossa terra porta materia prima alle novelle fabbriche di laterizi cittadine.
Al proposito il Casalis racconta che le "fanciulle" d'allora lavoravano alla pulitura dell'argilla grezza per le fabbriche di maioliche.
Nel 1862, quando nel nuovo stato italiano i comuni con il nome di Vico saranno parecchi, per non dover unire l’umiliante “ di Mondovì” alla propria denominazione, una delibera del Consiglio comunale aggiungerà la parola “forte” ricordando come in antico fosse una fortezza militare importante, che abbracciava tutta la contrada del Borgo; poi sarà sempre Vicoforte.
Artigiana e rurale, Vicoforte conferma la sua economia in una agricoltura moderna e in un secondario artigianale capace di nuove conquiste; tuttavia é la presenza del Santuario ad animare il paese.
Un turismo di cultura e di fede, un tranquillo villeggiare, un ritorno alle fonti rappresentano la spinta economica più corposa della nuova dimensione vicese.
Sentinella all'imbocco delle valle monregalesi, Vicoforte rinnova nell'evoluzione storica, l'importanza che già in epoche remote seppe conquistare.
Il Patrono: San Teobaldo Roggeri
Nacque verso il 1100 a Vicoforte, detta allora semplicemente Vico, da genitori benestanti della piccola nobiltà locale. Notizie sulla sua vita ve ne sono pochissime, esse comunque vengono riportate in un antico documento composto da un codice membranaceo palinsesto del sec. XIV conservato nell’archivio capitolare di Alba (Cuneo).
Esso si compone di diciotto pergamene unite insieme e formanti un "rotulo" di m. 6,30, riporta notizie precedenti della vita e anche dei miracoli attribuiti alla sua intercessione. Il testo originale latino è stato pubblicato insieme alla versione italiana da Luigi Giordano ne’ Il ‘rotulo’ di s. Teobaldo Roggeri e anche ne’ La storia di s. Teobaldo Roggeri, il santo dell’antico Comune e della Corporazioni Alba,1929.
A dodici anni, rimasto solo al mondo, lasciò Vico e si trasferì ad Alba ove si occupò presso la bottega di un ciabattino per imparare il mestiere, anzi si stabilì presso la famiglia dello stesso, per vivere così una vita umile fra poveri.
Alla morte del suo benefattore, che invano aveva sperato di vederlo sposato con la figlia Virida, Teobaldo lasciò Alba dopo aver rifornito di mezzi per vivere, la famiglia presso la quale aveva vissuto per quasi dieci anni. Andò pellegrino a Santiago di Compostella in Spagna, mendicando di porta in porta.
Ritornato ad Alba non riprese il mestiere di ciabattino ma scelse di fare il facchino considerato il più umile fra i mestieri e così privandosi del poco guadagno poté aiutare questi miseri.
Pentendosi di aver reagito con uno scatto indignato ad un’offesa ricevuta, volle espiare per tutta la sua restante vita e prese a dormire sulla nuda pietra della scalinata della chiesa di s. Lorenzo ove prese anche a servire come sacrestano nelle ore libere dal facchinaggio.
Una sera che si era recato a far visita alla vedova del ciabattino, lo colpì un grave malore e sotto quel tetto morì nell’anno 1150. Secondo i suoi desideri fu sepolto nello spazio compreso fra le due chiese di s. Lorenzo e s. Silvestro. La sua tomba divenne meta di pellegrinaggi e svariati miracoli avvennero, ma col trascorrere del tempo, la sua tomba cadde in oblio fino al punto che se ne dimenticò il posto.
Tuttavia essa fu riscoperta, quasi per ispirazione, dal vescovo di Alba Alerino dei Rembaudi, il 31 gennaio 1429. Tale episodio è ricordato dalla lapide marmorea fatta murare dallo stesso vescovo nella cappella dedicata al Santo, nel Duomo, ove le spoglie furono poi traslate.
Il culto immemorabile venne riconosciuto ufficialmente solo nel 1841 dalla Santa Sede, dietro richiesta del vescovo di Alba, Costanzo Fea.
La festività liturgica ricorre il 1° giugno.